Ringraziamo Irene Bolzon per il suo prezioso contributo su Dino Virgili, nel centenario della nascita del poeta e scrittore, e nell’ottantesima ricorrenza della Liberazione.
Nell’anno in cui ricorre l’ottantesimo anniversario che ricorda la fine della guerra di Liberazione, per un gioco del caso, cade anche il centenario della nascita di Dino Virgili, figura di grande rilievo per il panorama culturale friulano.
La duplice ricorrenza offre l’opportunità di porre l’attenzione, tra la vasta produzione letteraria e pubblicistica di Virgili, sul volume “La fossa di Palmanova. Nazisti e fascisti in Friuli”, dato alle stampe nel 1970 da Del Bianco Editore per iniziativa dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia di Trieste.
Il volume, aperto dalla prefazione di Renzo Biondo “Boscolo”, figura di spicco della resistenza osovana in Friuli e tra i soci fondatori dell’Iveser di Venezia, Istituto Veneziano per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea, rappresentò la prima iniziativa editoriale legata alle vicende della Caserma “Piave” di Palmanova, uno dei luoghi più significativi della regione legati alla storia dell’occupazione nazista e della guerra civile.
La Caserma “Piave”, a partire dal mese di settembre del 1944, aveva ospitato la sede di un centro di repressione antipartigiana sottoposto al comando udinese della SIPO SD (Sicherheitspolizei und Sicherheitsdienst, polizia di sicurezza delle SS incaricata della persecuzione dei nemici politici e razziali del Terzo Reich). Si trattò, per l’ampiezza del suo raggio territoriale d’azione e per l’intensità dell’attività repressiva condotta sul territorio, del centro di repressione più importante del territorio friulano. Il comando del centro venne affidato a Herbert Pakebusch, nazista della prima ora, il quale ne delegò l’organizzazione al tenente Odorico Borsatti, comandante di un plotone a cavallo di volontari italiani e tedeschi delle SS. In poche settimane Borsatti mise in piedi un’efficiente macchina organizzativa, caratterizzata da una ramificata rete di informatori e dall’applicazione di feroci torture sui prigionieri catturati, che gli consentì di mettere a segno decine e decine di arresti. A seguito del trasferimento di Borsatti, avvenuto alla fine del mese di novembre, prese servizio presso la caserma una compagnia del I battaglione del VI reggimento di Milizia di Difesa Territoriale (ex 63 ª Legione MVSN), costituito da una quarantina di uomini che rispondevano agli ordini di Ernesto Ruggiero. All’interno di questa unità si distinse l’azione di una decina di uomini specializzati nelle operazioni investigative e di anti-guerriglia che prevedevano un ampio ricorso a torture e mutilazioni contro i prigionieri, fucilazioni arbitrarie e violenze di ogni natura ai danni della popolazione e dei familiari di veri o presunti partigiani. Questo nucleo venne battezzato dalla voce popolare con l’epiteto di “Banda Ruggiero”. A testimonianza dell’imponente attività svolta sul territorio, il centro avrebbe registrato dal novembre 1944 fino ai primi di aprile oltre 500 prigionieri, di cui 113 segnalati come “morti a seguito di tentata fuga” (dicitura dietro alla quale si nascondevano decessi a seguito di torture, maltrattamenti e fucilazioni arbitrarie). I numeri sono tratti da un registro ritrovato all’interno della Caserma nei giorni della Liberazione, ma sono da considerarsi parziali dal momento che non comprendono partigiani e civili seviziati e uccisi durante le operazioni di rastrellamento e che non tengono conto dell’attività già precedentemente svolta dalle SS di Borsatti. Il centro avrebbe cessato la sua attività per volontà dei comandi tedeschi di Udine che, una volta avviata un’inchiesta su quanto stava accadendo nella Bassa Friulana, disposero l’arresto di Ernesto Ruggero e di alcuni dei suoi uomini, accusati di aver agito violenza arbitraria e indiscriminata contro i civili e i partigiani senza aver riferito gli esiti del loro operato alle autorità tedesche.
All’interno della “Piave” vennero detenute centinaia di persone, tra cui nomi di spicco della Resistenza friulana. Per quelle celle passò e venne torturato Mario Modotti “Tribuno”, poi fucilato a Udine il 9 aprile del 1945, e vi morirono, dopo atroci torture, Romano Fumis e Silvio Marcuzzi “Montes”. Molto più lungo potrebbe però essere l’elenco di combattenti che trovarono la morte a Palmanova o che, pur uscendone vivi, rimasero tra quelle mura per sempre.
Oggi la storiografia ha permesso di inquadrare con estrema precisione le responsabilità di coloro che operarono a Palmanova e l’importanza strategica giocata dalla “Piave” nell’assetto repressivo impostato dai nazisti nei mesi successivi all’assestamento della Linea Gotica quando, alla fine della cosiddetta “Estate partigiana”, le speranze di una rapida risoluzione del conflitto si erano fatte via via più flebili. La stagione di studi legata alla realizzazione dell’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, progetto curato dall’Istituto nazionale “Ferruccio Parri” di Milano, che ha coinvolto su tutto il territorio nazionale oltre un centinaio di ricercatori, ha permesso inoltre di far emergere il ruolo che la Caserma “Piave” giocò nelle retrovie della Linea Gotica nella fase di “pianurizzazione” del movimento partigiano. A Palmanova, come nel resto dell’Italia ancora occupata, la violenza subì un’impennata grazie ai margini sempre crescenti di autonomia che i fascisti locali seppero guadagnarsi prima appoggiando i tedeschi nelle attività investigative e poi perseguendo una propria libera iniziativa stragista sui territori mirata alla riaffermazione del loro potere, laddove gli organi del fascismo repubblicano non erano riusciti ad attecchire non solo per l’ostracismo dei tedeschi e per l’assetto amministrativo dell’OZAK – Operationszone Adriatisches Küstenland, di fatto annesso al Reich, ma anche per l’apatia dimostrata dalla popolazione civile nel riaccoglierli dopo l’8 settembre 1943.
Di tutto questo ben poco si sapeva nel 1970, quando il libro di Virgili venne dato alle stampe. Per lo meno, ben poco era noto all’opinione pubblica, dopo 25 anni in cui dei fatti relativi alle violenze del periodo 1943-1945 si era dibattuto pubblicamente solo di rado. A partire dalla 1946 la mancata “resa dei conti” con chi si era macchiato di orrendi crimini in quei venti mesi e il sostanziale fallimento di un processo di epurazione dal fascismo della società, operazione tutt’altro che realizzabile in tempi brevi, aveva imposto, per ragioni di forza maggiore dovuti ai fragilissimi equilibri politici interni e internazionali, l’oblio sui fatti della guerra civile. Un’amnesia che trovò forma in un discorso pubblico che promosse per quasi trent’anni l’immagine di un fascismo come anomalia nel naturale processo di crescita del Paese, una parentesi chiusa e cauterizzata grazie alla vicenda resistenziale, letta come ultimo capitolo della gloriosa stagione risorgimentale. La stagione politica e culturale apertasi a partire dal 1965 in avanti propose una chiave di lettura diversa di quei fatti, mettendo all’ordine del giorno un discorso sulla resistenza italiana autonomo rispetto alle epoche precedenti, scadendo sì spesso nella dimensione retorica dell’eroismo e del sacrificio, ma riportando all’attenzione alcuni snodi fondamentali della vicenda resistenziale e la necessità di comprendere meglio la storia del fascismo. Della stessa Caserma “Piave” si sapeva e si ricordava ancora molto, se non tutto, ma si trattava di discorsi relegati alla dimensione individuale o a piccole comunità del ricordo. Lo dimostra il fatto che solo nel 1968 il Comune di Palmanova aveva approvato l’apposizione di due epigrafi che ricordassero cosa era accaduto in quella caserma ancora operativa e frequentata dai giovani sotto naja.
È in quel clima politico e culturale che Virgili, vicino agli ambienti dei reduci della “Osoppo” e a una ristretta rete di testimoni che erano sopravvissuti alla carcerazione all’interno della “Piave”, scrisse La fossa di Palmanova, basandosi in buona parte su copia degli incartamenti del processo ai componenti della banda Ruggiero celebrato dalla Corte d’Assise Straordinaria (CAS) di Udine, conclusosi con la sentenza n. 120/46 del 10 ottobre 1946. Tali copie, custodite dall’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia, erano le uniche accessibili, dato che tutti i fascicoli dei processi celebrati dalla CAS di Udine nel dopoguerra per reati di collaborazionismo erano depositati presso l’archivio del Tribunale e praticamente inaccessibili per motivi di studio. Virgili scelse la via di una riproposizione nuda e cruda delle testimonianze presenti negli atti istruttori e nei verbali di dibattimento, spogliando i testi dei testimoni da ogni suo commento, filtro poetico o tentativo di interpretazione. Correttamente Carlo Sgorlon, in una recensione uscita sulla rivista “La panarie” nello stesso anno la descrisse come “una raccolta organizzata di materiali che serviranno allo storico dell’avvenire, e nello stesso tempo una appassionata denuncia”. Lo stesso Virgili dichiarava in apertura che il suo saggio costituiva solo un primo contributo, incompleto di nomi e circostanze, concepito come primo studio e soprattutto come un “risarcimento di riconoscenza e di onore ai Morti e a coloro che sentono ancora nelle carni il bruciore delle ferite e delle torture”, citando un passo della motivazione della Medaglia d’Oro al valore partigiano concessa al Friuli.
Le pagine scritte da Virgili nel 1970 furono dunque dirompenti, le prime a mettere nero su bianco e a divulgare al grande pubblico testimonianze e carte di fatto inaccessibili ai più. Ciò che scrisse allora va infatti riletto con gli occhi del suo tempo: un’epoca in cui mancavano ancora alcuni degli studi fondamentali sull’OZAK e sul suo sistema repressivo (i contributi di Enzo Collotti e Karl Stuhlpfarrer uscirono tra il 1974 il 1975), in cui era troppo presto per parlare del coinvolgimento dei reparti collaborazionisti italiani nelle violenze contro la popolazione e di guerra civile (per cui bisognerà aspettare ancora il 1991 con l’uscita dell’imponente saggio di Claudio Pavone) e in cui le carte dei processi ai fascisti celebrati nel dopoguerra erano ancora largamente indisponibili (i primi riversamenti agli archivi di Stato competenti risalgono alla prima metà degli anni 2000).
Virgili era consapevole di consegnare al pubblico un lavoro che non costituiva una ricostruzione storiografica compiuta, così come della complessità della vicenda che proponeva all’attenzione del pubblico. Questo perché se da un lato la Caserma “Piave” segnava una pagina di storia inequivocabile e chiara rispetto al valore e all’impegno di tutta la Resistenza friulana, dall’altro non poteva sottrarre la narrazione alla tridimensionalità della storia e alle sue trame complicate: lui stesso accenna alle controverse relazioni tra i comandi del centro e i vertici della “Osoppo”, anch’esse oggetto di un dibattito storiografico che le ha inquadrate successivamente nei tentativi perpetrati dai nazisti e dai fascisti più coinvolti negli apparati repressivi come salvacondotto per una guerra certamente perduta, spesso con la mediazione della componente angloamericana, ben consapevole di come la vicinanza del Movimento di Liberazione Jugoslavo avrebbe in tempi rapidi inserito i destini dei territori della Venezia Giulia nel quadro più ampio delle difficili relazioni postbelliche tra coloro che avevano combattuto il nazifascismo.
Le nude parole dei testimoni e la brevità dei resoconti stenografici, che al lettore che ne fruisce per la prima volta risultano ancora oggi agghiaccianti, restituiscono la statura del lavoro di Virgili e dell’impegno dell’Istituto che se ne fece promotore. Un impegno che vide tutte le parti in causa ben consapevoli che la vicenda della “Piave”, tra le più divisive del panorama memoriale friulano in merito ai fatti della guerra di Liberazione, avrebbe avuto bisogno di tempo e distacco per arrivare a un esito storiografico compiuto. Ne è una riprova il fatto che ancora nel 1995 non esisteva un lavoro dedicato al centro di repressione palmarino, tanto che il Circolo di Cultura comunale di Palmanova si fece promotore di una riedizione della fossa di Palmanova, a cui vennero aggiunte in nota preziose integrazioni curate da Galliano Fogar che permisero di inserire il saggio di Virgili, nel frattempo morto nel 1983, in un orizzonte di studi che nel 1970 era ancora tutto in divenire. Il clima in cui uscì la seconda edizione del libro era ben diverso da quello di 25 anni prima. Gli anni Novanta avevano imboccato un nuovo corso per il discorso politico e pubblico sulla Resistenza, risentendo delle crisi identitarie e politiche seguite al crollo del Muro. Nonostante i tentativi di ridimensionare, rivedere e in parte delegittimare l’esperienza partigiana, quegli anni rimisero al centro del dibattito il tema delle vittime della repressione nazista e fascista. È nel 1996 che venne ad esempio riaperto il processo contro Eric Priebke e ad altri criminali nazisti in seguito al ritrovamento dell’Armadio della vergogna, di cui in un’inchiesta per l’Espresso scrisse per la prima volta il cronista Franco Giustolisi nel 1994.
Alla stagione di studi che seguì la ricerca degli ultimi criminali nazisti ancora latitanti e l’analisi dei fascicoli processuali aperti nel dopoguerra contro di loro, negli ultimi 20 anni ne è seguita un’altra, quella che ha reso accessibili le carte delle Corti d’Assise Straordinarie in Italia, che hanno permesso di porre l’attenzione degli studiosi sui crimini commessi dai fascisti italiani dopo l’8 settembre del 1943. È proprio grazie a questi incartamenti che nel 2012 il volume Repressione antipartigiana in Friuli. La caserma «Piave» di Palmanova e i processi del dopoguerra, edito da KappaVu, ha potuto segnare una prima vera e propria sistematizzazione delle informazioni disponibili sulla storia della Caserma “Piave” in chiave storiografica. La possibilità di accedere a tutti i processi celebrati dalla CAS di Udine tra 1945 e 1947, la pubblicazione di molti diari e memorie partigiane, la disponibilità delle fonti partigiane e dei diari di brigata presso l’archivio dell’ANPI e del Seminario Arcivescovile di Udine e di quelle ecclesiastiche presso l’archivio dell’IFSML – Istituto friulano per la Storia del Movimento di Liberazione hanno consentito una prima verifica dei dati solo abbozzati da Virgili e un riscontro più ampio sulle circostanze riportate dai testimoni a fine guerra.
Il quadro restituito dal lavoro pubblicato nel 2012 se da una parte ha permesso di fornire elementi incontrovertibili sull’importanza del centro di repressione di Palmanova e sulle responsabilità dei reparti italiani che vi erano collocati, dall’altra ha reso evidente il molto lavoro ancora da fare. Dal momento della pubblicazione del libro sono emerse infatti decine di testimonianze orali, spesso di seconda generazione, che meriterebbero di essere incrociate con i dati emersi dal riscontro documentale.
In questo senso il costituendo museo regionale della Resistenza, che avrà sede proprio all’interno della Caserma “Piave”, può rappresentare una grande occasione per rimettere in moto una nuova stagione di studi e approfondimenti che permettano di delineare ancor meglio le vicende della guerra di Liberazione in Friuli e il ruolo del centro di repressione di Palmanova all’interno delle complesse dinamiche di una regione di confine.
La fossa di Palmanova, infatti, come ogni vicenda tragica che ha segnato e diviso le comunità locali nel periodo tra il 1943 e il 1945, fa parte di una più ampia storia della memoria legata alla guerra di Liberazione che in parte è, per il Friuli, ancora da scrivere.
Irene Bolzon

